di Fernand Fournier
Il museo è, di per sé, un luogo attraversato da contraddizioni con le quali ogni conservatore è portato a confrontarsi se intende assolvere il proprio incarico.
Una di esse, e non la meno importante, potrebbe formularsi così: da un lato, qualsiasi opera merita di entrare nel museo nella misura in cui è un elemento del patrimonio culturale; è opportuno, di conseguenza, evitare la compartimentazione élitaria, la discriminazione erudita e le selezioni la cui ostentata oggettività non fa che mettere in evidenza una lettura particolare della storia dell’arte.
Ma, dall’altro lato, non è possibile né accumulare tutto né mettere tutto sullo stesso piano, se non altro per la necessità di organizzare lo spazio mussale e costruirne il percorso. La scelta s’impone tra l’importante e l’accessorio, tra il capolavoro e l’opera dell’epigono, il che naturalmente solleva una difficoltà, poiché può ricomparire allora lo spettro dell’autoritarismo e della censura. La situazione sembra bloccata. Si devono abolire le frontiere o al contrario segnarle?
Entrambe le posizioni si escludono a vicenda. Nei due casi l’effetto sulla soggettività del visitatore sarà disastroso: o il disagio, una sorta di vuoto e di ebetudine di fronte al caos, o l’indottrinamento operato in nome di un procedimento che si vuole scientifico. In ogni caso, l’intelligenza ne esce mortificata.
Come evitare questo dilemma? sembra che una risposta originale sia proposta dal Museo di Calasetta, che accoglie la collezione costruita pazientemente durante quarant’anni di vita comune da Ermanno e Maria Rita Leinardi. Le opere esposte non devono la loro presenza in questo luogo alle decisione di un amministratore incaricato di applicare una politica d’acquosi e neanche alle passioni incontrollate di un critico o di un collezionista.
Sono essenzialmente cose vive, con cui il pittore Ermanno Leinardi ha vissuto e dialogato nell’intimità della sua dimora e del suo studio. Esse hanno saputo captare lo sguardo amoroso dell’artista chem chiamandole accanto a sé, le ha fatte nascere una seconda volta.
Pur essendo testimonianze oggettive di una certa storia dell’arte di questo secolo, esse sono inseparabili dall’avventura personale, estetica e spirituale del pittore che le ha scelte: in altri termini, questo Museo non è affatto una “macchina che conserva e accumula” e, se mette in scena la soggettività del collezionista senza disperdere le opre in nome di un’ipotetica teoria, è per meglio sollecitare il confronto sulla scelta dell’artista, o, per parlare come Max Weber, sul suo “rapporto valori”.
L’oggettività si paga a prezzo della probità intellettuale.
Il Museo d’Arte Contemporanea di Calasetta non si accontenta dunque di mostrare.
Invita a un addestramento dello sguardo, convocando tra il visitatore e l’opera esposta un altro sguardo, non quello dell’esperto, imbrigliato dal dogmatismo ma quello dello stesso pittore Leinardi, che si comporta qui da maestro. Sguardo singolare, certo, perché si è nutrito grazie alla frequentazione delle Avanguardie degli anni 1960/1970. La collezione ne è una testimonianza per l’interesse particolare che essa concede alle esperienze audaci di questo periodo della storia.
In esse sono effettivamente rappresentante tutte le tendenze dell’arte astratta: che si tratti dell’astrazione lirica e informale o dell’astrazione geometrica, che sarebbe più corretto designare con il nome di “arte concreta”. Ma è chiaro tuttavia che quest’ultima costituisce la pietra angolare della collezione. Una tale scelta estetica è contraria all’orientamento del mercato dell’arte e alle ideologie che vi dominano. Essa sostiene che il XX secolo è essenzialmente caratterizzato dal rifiuto deliberato dalla figurazione e che tale rifiuto, confermato dalle teorie di un Mondrian o di un Malevitch, ha portato, per una sorta di rovesciamento dialettico, a fare dell’opera d’arte, nelle sue più importanti realizzazioni, una geometria concreta e viva nello stesso temo, in cui il colore ha otto mantenere le promesse di una autonomia che essa aveva appena conquistato.
Di fatto “una furia di geometrismo plastico” per parlare come Ortega y Gasset, s’è impadronita del secolo. In un primo tempo presenti sulla tela del pittore, le forme geometriche hanno rapidamente creato un nuovo spazio plastico che si è esteso al muro, alla camera, all’edificio, alla strada, alla città, alla vita intera.
Si tratta di un fenomeno estetico il cui significato storico supera ampiamente l’importanza che ha avuto la prospettiva nel Quattrocento. La rottura con al tradizione occidentale è radicale. Movimenti come il Cubismo, il Futurismo o l’Espressionismo, malgrado il loro carattere sovversivo, si erano limitati a rinnovare al libello della sintassi il linguaggio classico della pittura. L’arte concreta invece porta la rivoluzione al livello semantico e in modo più radicale di quanto non faccia l’astrazione lirica. Accetta la sfida che costituisce per l’arte il rifiuto totale di qualsiasi riferimento alla realtà naturale, con l’invenzione di un linguaggio i cui elementi formali e cromatici nulla devono al mondo della rappresentazione ordinaria: la forma in effetti è tratta da una Ragione geometrica che da tempo aveva proclamato la propria indipendenza nei confronti del sensibile.
Quanto al colore, esso non è più quello che poteva incantare l’occhio del fruitore: separato già dal tono locale nella pittura impressionista, diventato dato astratto o oggetto di speculazione, esso compie grazie all’arte concreta la propria trasfigurazione e acquisisce un valore in sé. Tale esperienza plastica è inevitabile, perché contribuisce, e con che vigore, al processo di razionalizzazione della vita umana in cui certi pensatori vedono la legge stessa dello sviluppo delle società occidentali.
Così si capisce che la collezione privilegi questo movimento artistico. Esso produce opere che, come già volevano i fondatori, considerino la misura delle potenzialità dello spirito umano, una volta liberatosi dalla soggezione alla natura.
Quanto Hegel diceva a proposito della filosofia, considerata come attività concettuale, vale a dire che lo spirito è ” a casa sua”, non lo si potrebbe forse dire, mutatis mutandis, a proposito dell’arte concreta? Ma bisognerebbe che quest’arte riuscisse a resistere allo scivolamento verso il decorativo e il “design”, altrimenti l’opera perde il suo significato, la sua poesia, ed è solo il risultato di una sapiente combinazione. D’altronde, si potrebbe dire la stessa cosa per la musica, con la quale, dal tempo di Kandisnskij e Klee, spesso si paragona l’arte concreta: la vita dello spirito l’abbandona quando, per costringere la volontà a un passo cadenzato, essa si piega al meccanismo del corpo. Sin dalla nascita dell’arte astratta, una simile deriva ha preoccupato i grandi creatori, spingendoli a teorizzare.
Essa è sempre possibile e talvolta effettiva. È qui che risiede, non c’è dubbio, il rischio di perversione del processo di razionalizzazione già evocato.
Ci chiediamo se esso sia necessariamente contraddittorio. E se l’emancipazione dell’arte abbia il suo rovescio nelle opere che lo spirito ha disertato.
Comunque sia, la collezione si guarda bene dal darcene esempi. Preferisci privilegiare, tra i numerosi artisti che Leinardi ha potuto incontrare durante i suoi viaggi e soggiorni in alcuni paesi d’Europa, coloro che, come Paul Klee, hanno saputo far cantare la geometria inserendovi l’emozione.
Leinardi ha voluto che appaia operata da lui stesso la scelta a favore di un’arte che sarebbe una poetica dello spazio costruito. È la ragione per cui si troveranno ugualmente nella collezione sue opere appartenenti a diversi periodi della sua produzione. Esse traggono la loro forza e la loro evidenza da una tensione dell0interiorità che cerca di risolversi in una promessa di felicità.
Queste opere vogliono abolire il tragico dell’esistenza umana in un superamento della contraddizione tra il pulsione e il razionale. Si potrebbe dire che in esse vibri la speranza di una razionalità capace d’instaurare il “regno dei fini”, per dirla con Kant. Ecco perché esse hanno valore di Manifesto estetico per l’intera collezione. Vi è, nell’autenticità di questo procedimento, una protesta veemente contro le tendenze dominanti del mercato dell’arte. Il mercantilismo, che mira alla redditività a breve scadenza e all’effetto facile, vi fa regnare la merce falsificata. Il criterio universale del valore risiede, oggi, secondo le leggi del mercato, nella dose del vistoso. Non si tratta più di pensare da sé, di fronte a un’opera d’arte.
In un’analisi che rimane tutt’ora acuta, Adorno constata che: “il prodotto proposto determina ogni reazione non grazie alla sua struttura di fatto, che crolla quando ci si riflette, ma mediante i segnali. Qualsiasi correlazione logica che sottintende uno sforzo intellettuale è scrupolosamente evitata”. Non è la stessa cosa per le opere che Leinardi ha raccolto con amore e che ora si trovano in questo Museo. Esse vivono in uno spazio mentale che non è quello che l’industria culturale ha investito. Esse esigono uno “spirito di scoperta” da parte del visitatore, e non il gusto per il divertimento, che è l’antitesi dell’arte; esse chiedono agli artisti astratti e costruttivisti europei di rendere questo Museo un luogo di accoglienza per una creazione che si rifiuta di cedere di fronte al positivismo regnante, un luogo in cui l’utopia potrà fiorire e assumere pienamente la sua funzione di provocazione
Parigi, luglio 1999